Averardo
Borsi nasce a Castagnetoin Maremma nel 1858 da una famiglia
di commercianti di stoffe; è autodidatta, legge molto.
Non che sia agnostico, ma non è uomo di fede; sposa
nel 1885 Verdiana Fabbri, al contrario fervente cattolica,
la cui madre è chiamata in paese "santa Filomena"
perchè sfornava il pane gratis per i poveri; Diana
ottiene per farsi sposare le dimissioni di Averardo dalla
massoneria e il matrimonio religioso. Senza un soldo in tasca,
la coppia si trasferisce a Livorno presso una sorella di lei,
dove Averardo prende a scrivere sulle colonne del Telegrafo
e de La Gazzetta di Livorno.
Qui il 31 dicembre 1886 nasce la figlia Laura, e il
10 giugno 1888 nasce Giosuè. A parte l'attività
di giornalista, Averardo è attivo politicamente come
radicale contro i liberali, e la sua casa è frequentata
da artisti e letterati, tra i quali Giovanni Pascoli e Giosuè
Carducci, con il quale sono amici di vecchia data, poiché
il padre di Carducci era medico a Bolgheri, e con il fratello
maestro erano amici e coetanei del padre di Diana. Giosuè
Carducci viene invitato a fare al primogenito da padrino,
ma viene rappresentato al fonte battesimale da Alfredo Galluzzi.
Di poesia si parla molto in casa, Averardo stesso pubblica
una raccolta di Rispetti Maremmani nel 1890. Averardo
trasferisce la famiglia a Roma per ragioni di lavoro, poichè
Averardo ha acquisito un giornale suo, dove il 10 novembre
1891 nasce il terzogenito Gino, e successivamente a Vicenza,
poichè diviene direttore del Corriere Vicentino;
ma poco dopo rientra a Livorno per sostituire il direttore
de Il Telegrafo, ucciso da un anarchico; inoltre collabora
con Giovanni Targioni Tozzetti a Liburni Civitas. Casa
Borsi, bella, ricca e ospitale, è uno dei salotti buoni
di Livorno.
Già alle scuole elementari Giosuè compone versi
(v. box in calce). A dodici anni compone un sonetto per la
prima comunione della sorella, dove profonde la fede cristiana
e dove già si sentono quelle cadenze vigorose dei suoi
versi futuri. Ma è anche portato alla scena drammatica,
in casa si gioca al teatro, i due fratelli, in camera loro,
danno piccole rappresentazioni con le ombre delle mani sul
lenzuolo. Da
adolescente tredicenne, dopo aver divorato tutti i libri che
poteva, trova I tre moschettieri di Alexandre Dumas,
e la sua fantasia si sbriglia, svolgendosi verso giochi scatenati,
assai nornali e sani: insieme con il fratello Gino e due amichetti
della stessa età loro, Dario e Ugo Sevieri, la combriccola
impersona per lungo tempo i personaggi del libro tanto amato:
Giosuè Borsi era Aramis, Gino, grande e grosso, era
Porthos, Dario Sevieri era Athos e il vivacissimo Ugo era
D'Artagnan.
Conseguenza di questo giuoco, alcuni anni dopo, fu l'improvvisazione
delle avventure de Il Capitano Spaventa, narrate
al fratello minore, il quale, mandato al Cicognini di Prato
all'età di undici anni, si racconsolò solamente
alla promessa del fratello di mandargli ogni settimana una
dispensa con le avventure del Capitano Spaventa, cosa che
Giosuè fece puntualmente. Il fratello Gino, in seguito
alla prematura scomparsa di Giosuè, fece pervenire
la
versione definitiva a Luigi Bertelli,
il quale ne curò la pubblicazione presso la casa editrice
Bemporad nel 1920. La prima edizione riporta: "Dedico
questo libro a mio fratello Gino, perchè durante la
vita di collegio, si ricordi del suo novellatore, e perché
i libro gli tenga il luogo delle novelle. G.B."
A scuola, al liceo ginnasio "Guerrazzi" di Livorno,
Giosuè Borsi non trova ciò che cerca: i professori
lo deludono, i sistemi pedagogici unilaterali del tempo non
si attagliano affatto al suo spirito in fermento, avido di
letteratura classica, di tragedia, e soprattutto di Dante,
suo Maestro. Ciò che non trova a scuola - le cronache
lo dicono insofferente fino al limite dell'indisciplina e
spesso biasimato - lo prende da sé nei musei, nelle
biblioteche, nei teatri, nelle sale da concenrto, nella palestra
dove tira di scherma. Di questo periodo sono conservate e
pubblicate le lettere private, colme di quel furore verso
la vita artistica che lo pervadeva. Scrive molto, soprattutto
poesie. Nel 1905 Le Monnier edita Versi, scritta
all'età di 17 anni. Diplomato nel 1905, nel 1907 si
iscrive a Giurisprudenza all'Università di Pisa, ma
il suo interesse è altrove: nel 1907 pubblica presso
Zanichelli il primo volume di poesie, Primus fons,
recensito dal padre stesso sulla Rivista d'Italia l'anno
seguente. A Pisa si aprono i salotti letterari per il giovane
Giosuè, il quale scrive alla madre: "Sono stato
accolto nel salotto della Signora N. con tutti gli onori dovuti
alla mia spiccata personalità. Nella mia redingote
ero semplicemente superbo." Da Pisa passa a Roma, dove
la famiglia nel frattempo si è trasferita, in piazza
S. Maria Maggiore, e dove soffre per la sua prima passioncella
amorosa, curata con letture dei classici. Conduce vita disordinata,
dorme di giorno e vive di notte. All'Università di
Roma viene bocciato all'esame di diritto amministrativo dall'on.
Antonio Salandra, poi interrompe gli studi nel 1910; il padre,
assai deluso e irritato, gli scrive una lettera nella quale,
oltre all'amarezza, gli esterna la sua totale mancanza di
fiducia, e conclude dicendogli di fare ciò che vuole,
la vita è la sua. A Giosuè queste parole fanno
più male di aspri rimproveri, tanto più che
Averardo muore improvvisamente il 23 dicembre di quel 1910;
il lutto sembra accanirsi sull'anima del giovane: il 18 luglio
1912 muore la sorella Laura, nel 1913 il piccolo Dino, figlio
illegittimo di Laura, amatissimo dalla famiglia, di cui Giosuè
era padrino. Si sposta di qua e di là, frenetico; a
Montecatini tiene una conferenza in francese, perchè
al momento il suo interesse è verso Parigi, dove conta
di recarsi dopo la laurea. Vive sempre nel pieno della sregolatezza,
tanto che si batte perfino in duello, finchè passa
all'Università di Camerino nel 1912, dove alfine prenderà
la laurea. Ci mette tanto perchè la Giurisprudenza
non gli piace affatto, vi è in qualche modo obbligato
dal deisderio del padre, che ve lo costringeva per il suo
bene e per dargli uno stato nella vita.
Nel 1909 riscrive completamente Il Capitano Spaventa,
nella versione quale oggi noi lo conosciamo, completato di
quei deliziosi disegnini che ne fanno davvero un capolavoro,
per compiacere una certa signorina di cui tace il nome. Nelle
lettere, indirizzate a questa o quella, definisce gli studi
"un lavoro noioso e insopportabile" e descrive lo
sforzo immane che fa per dedicarsi a questa materia; ad ogni
rimando, il padre, ora direttore de Il Nuovo Giornale di
Firenze, gli fa una sfuriata. In totale disaccordo e incomprensione
reciproca, questi rimproverava al figlio una vita "scioperata"
che minava anche la sua salute, poichè Giosuè
passava al tavolino anche tutta la notte ma non per studiare
bensì per comporre lavori di suo o scrivere lettere
ad amiche e amanti, che ne aveva anche più d'una. Giosuè
viveva in un mondo romantico, di esaltazione, di leggerezza
e di sperpero di forze verso il raggiungimento di una gloria
per il momento lontana, che gli faceva perdere di vista la
realtà. Inutilmente la madre Diana, con la quale invece
c'era una solida intesa d'amore filiale, cercava di accomodare
le cose. Lo colpisce un esaurimento, tanto che si ritira in
famiglia, a Forte dei Marmi, ma prosegue egualmente nella
stesura di un romanzo, rimasto incompiuto, La gentile,
concepito quand'era ancora a Roma: un'opera che egli definisce
"immensa, fondamentale" e per il quale lavora tutte
le notti. Nel frattempo pubblica il secondo volume di versi,
Scruta obsoleta; Ma è la morte del padre
che accelera quella "conversione" che forse era
già latente nel suo animo; se prima la sua vita era
tutta divertimento e indisciplina, orgoglio e lussuria, ora
la realtà presentava il conto. In tutto questo trambusto
interiore si innamora, e trasfigura la figura femminile in
un ideale crisitano; alla ragazza sconosciuta dà il
nome Giulia, e ne scrive come fosse la donna giusta per lui,
l'eletta. Le Lettere a Giulia vengono iniziate
due anni dopo la morte del padre e rivelano che Giosuè
Borsi è un'altra persona.
A 22 anni si ritrova direttore di un giornale, eredità
paterna, ma non ne è capace; ha inoltre la grave incombenza
di dover occuparsi della famiglia, assediato dalla politica,
infastidito dai problemi, contornato di nemici. In una lettera
a Ferdinando Palazzi scrive di una "orribile battaglia
di interessi, loschi affaristi, notai, avvocati, giudici,
uomini politici, giornalisti ed altra consimile genia feculenta.
Mi hanno derubato d'ogni mia fortuna, mi hanno lasciato in
balìa di me stesso, senza aiuti, perseguitato dalle
più ingiuste e stomachevoli calunnie." E' stato
semplicemente catapultato nella vita vera, da quel mondo dorato
e viziato dove si era crogiolato fino a quel momento. Inesperto
com'è, non riesce ad evitare gli scogli in un momento
in cui l'Italia è impegnata nella guerra di Libia,
e i suoi commenti per gli Italiani irredenti ai quali il Governo
austriaco impediva l'insegnamento della lingua italiana nelle
scuole gli valgono la cessazione dei sussidi al giornale,
che fallisce; finalmente lascia la direzione per limitarsi
a collaborare come critico letterario, artistico e musicale.
Ridotto di molto il tenore di vita, egli, deluso dalle cose
del mondo, si volge verso quelle spirituali. Ma non cessa
di occuparsi di arte e letteratura, anzi. Acquisisce notorietà
come fine dicitore di Dante, di cui esegue alcune Lecturae
Dantis che si tengono a Orsanmichele (1913-1915) recitate
a memoria con qualità ritmiche e tonali che gli valgono
anche il plauso di Isidoro Del Lungo; esegue anche alcune
interpretazioni del teatro greco sotto la guida di Ettore
Romagnoli e interpreta Dioniso nelle Baccanti di Euripide,
Admeto nell'Alcesti, Ulisse nel Ciclope, Socrate
nelle Nuvole di Aristofane.
Tuttavia in questi anni tormentati il percorso evolutivo di
Giosuè Borsi è in un'unica direzione: il misticismo.
L'amore per Giulia accende il suo spirito di un fervore straordinario;
nel Diario, iniziato dopo la morte della sorella,
egli anela ad una compagna di vita che lo compensi, con una
nuova famiglia, della perdita di quella d'origine. Ma Giulia,
quella vera, non sarà mai nulla per l'uomo Giosuè,
che, essendo un poeta sentimentale, scrive le Confessioni
a Giulia, che termina nel 1913, dando questo nome
alla sua donna ideale, sul modello dantesco. L'opera rivela
la grandezza in fieri di questo poeta, ricca com'è
di pathos, di torbidi istinti, di sentimenti e di passioni.
Vincenzo Errante lo celebra come poeta già dotato di
uno stile stile proprio e originale, nonostante sia così
giovane. Nelle lettere a Giulia Giosuè rivede criticamente
il romanzo La gentile, ormai interrotto definitivamente;
l'opera, in parte narrazione autobiografica, avrebbe voluto
dar voce a tutte le "vicende del suo spirito, a quelle
della stirpe italica, a quelle di tutto lo spirito umano":
un po' troppo.
La laurea gli permette di citare in causa il comproprietario
del Nuovo Giornale, e vincerla. Le sue intenzioni sono
di formarsi una posizione per poter chiedere in moglie Giulia,
quella vera. La professione di pubblicista e critico letterario
qualcosa gli dava, ma non era certo sufficiente. Nel suo studio
in via Faenza scive le dieci novelle che formeranno il libro
dei Crisomiti; le novelle, collegate tra loro,
sono dedicate a dieci amici fra i più cari, fra i quali
Massimo Bontempelli, Fernando Palazzi, Ettore Zucca, Francesco
Chiesa, Emilio Bodrero. Scrive lettere nelle quali deplora
la sua vita passata nella falsità e nelle leggerezza;
e tuttavia indossa una maschera mondana, veste con inappuntabile
eleganza e si stampa in viso un'apparenza bonaria, per nascondere
a tutti il tormento spirituale che lo attanaglia. Riprende
il teatro greco, stavolta recitato nel teatro di Siracusa,
a fianco di Gualtiero Tumiati, Evelina Paoli e Carlo Ninchi.
Egli possiede una di quelle menti aperte, di vivissima intelligenza,
e talento a sufficienza per riuscire bene in tutto ciò
che fa - recitare, verseggiare, scrivere, commentare - ma
non riesce ad eccellere in una cosa particolare. Egli anela
a più alte vette, che trova nella fede.
Nel
1914 avviene l'incontro tra Giosuè Borsi e p. Giovanni
Alfani, che all'epoca dirigeva l'osservatorio Ximeniano dei
Padri Scolopi, in piazza S. Lorenzo. A seguito di alcuni colloqui,
Giosuè Borsi ritiene di dover rinnegare una volta per
tutte quell'esistenza mondana e peccaminosa condotta fino
allora. Il 16 luglio 1914 fa la confessione e il giorno seguente
la Prima Comunione, e infine, il 30 aprile 1915, la Cresima.
Ha ventisei anni. Il 20 giugno 1915 vuole essere iscritto,
come Dante, alla milizia del Terz'Ordine Francescano, nella
chiesa delle suore Calasanziane. Egli ha vinto la sua aspra
battaglia contro la lussuria, i propri istinti e le proprie
passioni, liberandosi dall'egoismo e dalla schiavitù
delle cose terrene. Giaà nel corso dell'anno appena
trascorso ha elaborato un "testamento spirituale",
che riscrive e data 25 novembre 1914, scritto che viene riprodotto
sul periodico fiorentino Stella Maris nei numeri di
maggio e giugno 1915 con prefazioni dello stesso don Galbiati
e del p. Alfani.
Il 31 agosto 1915 si arruola volontario insieme con una cinquantina
di "diavoli scatenati, furenti d'entusiasmo", come
scrive alla madre. Le numerosissime lettere che Diana Borsi
riceve dal fronte saranno poi raccolte in volume e date alle
stampe postume, come quasi tutte le opere di Giosuè
Borsi. Le tappe del suo percorso sono Padova, Venezia, Udine,
Cividale. E' sottotenente (poi tenente) nel secondo battaglione
del 125° fanteria, 6a compagnia, schierato da Nekovo a
S. Vito, in prossimità dell'Isonzo. Gli viene affidato
il comando di 24 esploratori, gli arditi che tagliano i reticolati
e lanciano bombe a mano, si fa un nome come temerario e viene
lodato dai superiori. Tra il 19 e il 20 ottobre scrive tantissime
lettere, alla madre, a Gino, alla fidanzata, agli amici. Si
sta avvicinando alla linea di fuoco e forse ha un presentimento.
Tutti i passaggi delle truppe sono descritti nelle lettere,
quasi giornaliere, e dunque qui non li riportiamo. Diciamo
solo che il battaglione passa l'Isonzo sul ponte di Plava
e da lì sale fino a Zagora sotto le granate austriache.
Il 10 novembre, riuniti con altri battaglioni, ricevono l'ordine
dell'assalto alla trincea nemica. Giosuè Borsi, al
comando del terzo plotone, esce per primo al grido di "Avanti
Savoia! ormai siamo vittoriosi!" lanciando bombe a mano.
Una palla lo prende in pieno petto. Ha la forza di dire solamente
"Dio mi ricompenserà - mamma!". Le sue ultime
parole sono fedelmente riportate dal fante Attilio Vannozzi
che gli stava accanto.
Ha solo ventisette anni. Successivamente il corpo viene riportato
nelle trincee italiane e addosso gli vengono trovate insanguinate
le medaglie (aveva già ricevuto la medaglia d'argento),
la fotografia della madre e un'edizione della Divina Commedia,
cimeli in seguito esposti dalla madre alla Mostra Interprovinciale
del Libro di Livorno, nel 1935. Viene sepolto in uno dei tanti
piccoli cimiteri sulla sponda sinistra dell'Isonzo, tra la
quota di Plava e il principio del monte Cucco. Oggi è
nel monumentale Ossario di Oslavia, tra migliaia di altri
caduti: la bella lapide di Firenze custodisce un sacello vuoto.
A Livorno esiste un'associazione culturale a lui intitolata.
I
libri e i cimeli di Giosuè Borsi esposti dalla
madre Diana alla Mostra Interprovinciale del Libro,
Livorno, 1935
(da un giornale dell'epoca). a ds: la Divina
Commedia insanguinata, ritrovata sul suo corpo.
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febbraio 2012
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