La
Maremma oggi è meta turistica e presidio produttivo, ma dobbiamo
immaginarla come fosse centocinquant'anni addietro: deserta, malarica
nelle zone acquitrinose, verde di macchia e di foresta contro il fondo
azzurro spento dei monti. I castelli bucano il mar di frappa come
isole. Si stende dal padule di Grosseto e di Castiglione, chiusi a
mezzogiorno dai poggi dell'Alberese che si dilungano verso l'Argentario,
fino a Montalto, dove inizia la Maremma laziale, che declivia meno
aspra. L'entroterra incupisce e vi regnano i boschi di lecci e di
sughere, nel groviglio della macchia il terreno si spezza in dirupi
e caverne, forre e scheggioni. E' nella macchia che stanno, nascosti
e silenziosi, i veri abitanti della Maremma, gente che non parla,
che guardan le capre o le bufale, i butteri dai cosciali di capra,
che van bene per star tra i rovi. In estate salgon sui monti, e dopo
riscendono nella macchia dove ritrovano le capanne di falasco lasciate
l'anno prima. Sono boscaioli che fan carbonella, butteri e pastori.
Sono pochi. D'ottobre arrivano le prime greggi, e i cinghiali spaventati
dai pastori abbandonano i piani per rifugiarsi nei forteti; d'ottobre
calano gli uccelli di passo e arrivano i cacciatori per il frullo
dei beccaccini, e la macchia si anima, non solo di tordi, beccacce,
fiasconi, germani, arzavole, pavoncelle, pivieri, ma anche di braccate,
del fracasso dei cinghiali giù per le forre, rincorsi dai cani.
I tordi eran tanti che si portavan via a canestrate, e il marchese
Niccolini quando andava a beccaccini era capace di farne anche più
di cento in un giorno.
"Là
in Maremma studi, nascita, condizione, relazioni e denaro contano
poco o nulla: il carabiniere è una rara apparizione, lo speziale
non esiste, la società è lontana. L'uomo è solo
e la Maremma, bella e fatale come la sfinge, gli propone l'eterno
problema della vita. L'uomo vero non è spento, un fiero istinto
si risveglia in quel fiero isolamento, e nasce prepotente l'ambizione
di bastare a se stessi. Onde non senza un senso d'orgoglio ci si può
dire: ho sfidato i paduli insidiosi e le foreste interminate, le notti
di ghiaccio e la canicola micidiale - sempre in sella per greppi dirupati,
per fiumane crescenti, schivando, affrontando le torve mandrie dei
tori, accorando il cignale fra i cani sventrati, fidando al mio schioppo
la mia sussistenza e la mia difesa: ho vissuto come un maremmano!"
Sono parole di Eugenio Cecconi ma le potremmo attribuire a qualunque
vero cacciatore, o anche ai briganti maremmani, che vivevan
di caccia, nascosti nella macchia.
La caccia non è solo uno sport, è molto di più.
E' una grande potenza, la caccia. E' ebbrezza di lotta, di gara, di
astuzia, il bisogno del rischio e dell'agguato, la guerra per la guerra,
del sangue per il sangue, del pane guadagnato al pericolo della vita
più che al sudore della vanga. E il suono della caccia:
le grida dei braccaioli, la canea battente, l'ululato dei corni, lo
scoppiare delle salve, le grida dell'attacco, le galoppate... è
la caccia! E la vera caccia, è quella al cinghiale, che assurge
a scontro epico. Per vincerla sul cinghiale il cacciatore non esita
davanti a nulla, rischia se stesso e i suoi cani, spesso sventrati,
si butta giù dalle forre, annaspa nei paglieti con l'acqua
fino alla pancia, si fa avanti a forza tra le marruche o nelle giuncaie.
"In quei luoghi meravigliosi [la Maremma] quasi tutti avevamo
rischiato la pelle, e quella vita avventurosa si rifletteva nei racconti":
sono parole di un cacciatore d'eccezione, il marchese Eugenio Niccolini,
che così inizia il suo libro di ricordi Giornate di caccia,
e spesso ricorda come fosse "dolce e sereno" quel tempo.
Dolce e sereno perché il cacciatore intrattiene un intenso
rapporto sentimentale con la natura. Il cacciatore ama la natura selvaggia
di questi luoghi, ama starvi in mezzo da solo tutta una giornata,
e tornare a casa pensando alla quiete. Sono ancora le parole del marchese
Niccolini: "Col sole, era calata anche la leggera brezza di ponente
e i canneti dorati inghirlandavano lo specchio calmissimo del lago.
La Torre di Capalbio, rosea per gli ultimi raggi di sole, spiccava
sul nero forteto di Monteti. La quiete serena di tutte le cose era
anche nell'animo mio ed io contento benedicevo la vita."
I cani sono i protagonisti della caccia, e Cecconi amava ritrarli
tutti, in tutte le loro espressioni, "dal pointer che per mancanza
di educazione ha fallito la sua carriera, al can da pastore cui il
bosco ha insegnato il mestiere; dal can da lepre esile e freddoloso,
al pesante mastino che trafela; dal bastardo terrier al bastardo pomero..."
E di tutti egli disegnava e coloriva i ritratti, studiandone l'anatomia,
i movimenti, gli sbalzi, le abitudini, ritraendone gli sguardi umani
e parlanti, quegli occhi pieni di tanti muti discorsi che ad un pittore
arguto, Telemaco Signorini, facevan dire esserci gente nei
cani del Cecconi.
Eugenio Cecconi spesso era ospite dei grandi signori, proprietari
di latifondi in Toscana e nella Maremma toscana, e appassionati cacciatori,
come il marchese Eugenio Niccolini (Eugenio Giuseppe Emilio Antonio
Maria Niccolini, XI marchese di Camugliano e Ponsacco: Firenze, 22
agosto 1853 - Firenze, 23 febbraio 1939). Di antica stirpe, Niccolini
possiede vasti palazzi a Firenze, proprietà terriere nel pisano,
e la splendida tenuta di Camugliano, acquisita dai Medici da un avo
nel 1637. Laureato in legge e uomo
di cultura, è in relazione con personaggi della letteratura
dell'epoca: Giosuè Carducci, Gabriele D'Annunzio, Renato Fucini,
Ferdinando Paolieri, Luigi
Ugolini, e con gli artisti macchiaioli. Fin
da giovinetto si appassiona alla caccia e ne fa una scienza. E' più
volte ospite a caccia di Re Vittorio Emanuele II, di Re Umberto I
e di Vittorio Emanuele III a S. Rossore, a Castelporziano ed anche
sui monti a stambecchi e camosci, ma il luogo che più ama è
la Maremma, e la caccia preferita è quella al cinghiale. Nel
1913 viene eletto Senatore del Regno e nel 1915 dà alle stampe
un libro straordinario: Giornate di caccia, che non
è solo il racconto delle sue gesta venatorie del tempo passato,
anzi, è soprattutto un inconscio racconto di sé, dove
emerge la sua natura buona, di un uomo che accetta con umiltà
il suo rango superiore, capace di vivere con semplicità accanto
al guardia, al bracchiere, al contadino, un uomo che si commuove ricordando
il suo cane preferito, Guerrino, il solo che potesse accucciarsi davanti
al camino la notte, mentre gli altri stavano nei canili, e che perse
durante una battuta al cinghiale.
Il suo primo incontro con Eugenio Cecconi è da lui stesso raccontato.
L'amico Gigi Malaspina e il fido guardia Gosto lo aspettano a Vignale
per la tesa di primavera; sul treno, nel vagone dove Niccolini sta
con un amico, a Fauglia sale uno sulla trentina, con un pastrano rossiccio
col bavero e la manopola di volpe, in spalla una sacca, un fucile
e una cassetta da pittore. L'amico del marchese lo presenta: è
Eugenio Cecconi. "Io e lui ci inchinammo con ostentata cortesia
ma guardandoci in cagnesco perché eravamo tutti e due un po'
scontrosi e per di più vedevamo nel nuovo arrivato un intruso
che avrebbe turbato l'intimità della comitiva. Cosicchè
quando potei capire che egli non si sarebbe trattenuto a Vignale che
quattro o cinque giorni, quanti gliene occorrevano per un bozzetto
che egli voleva fare nella sterpaia, io mi sentii riavere. [...] Eugenio
invece di cinque giorni ci stette più di un mese e fra noi
si strinse quell'amicizia che, sempre più intima, non poteva
essere interrotta che dalla morte." E ancora: "A pranzo
ci raccontavamo gli avvenimenti venatori della giornata, poi la conversazione
si allargava, come sarà sempre la conversazione spontanea,
e divertente quando un uomo come il Cecconi, senza accorgersene, ne
rialza il livello." La chiusa: "Le feste di Pasqua erano
vicine: Eugenio Cecconi aveva quasi finito il suo quadro e si decise
a partire. Dopo tanti anni quando l'altro giorno rividi quel quadro,
rividi anche tutto quel tempo e mi sentii battere il cuore come un
giovanetto davanti alla sua innamorata."
La
villa del marchese Niccolini a Camugliano che ospitava Eugenio
Cecconi
(courtesy www.camugliano.com)
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Eugenio
Niccolini, Giornate di caccia, Editoriale Olimpia,
1943
In copertina un disegno di Eugenio Cecconi, a dx una delle tante
illustrazioni interne tratte dai dipinti di Eugenio Cecconi
(courtesy Marchese Filippo Niccolini)
Un
altro gran signore che soggiornava spesso in Maremma per la caccia
era il principe Tommaso Corsini (Tommaso Bartolomeo Pier Francesco
Melchiorre Maria Corsini, VI Principe di Sismano e di Duca di Casigliano:
Firenze, 28 febbraio 1835 - Manciano, 22 maggio 1919), deputato
del Regno d'Italia dal 1865 al 1882, senatore a vita.
Nel Cinquecento i nobili Corsini furono gli artefici della fortuna
della famiglia, con la costruzione dell'enorme patrimonio immobiliare
e fondiario. La famiglia diede anche un papa, Lorenzo Corsini (1652-1740)
col nome di Clemente XII, un mecenate che si ricorda soprattutto come
fondatore dei Musei Capitolini e committente della Fontana di Trevi,
delle nuove facciate di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria
Maggiore, della costruzione del Palazzo della Consulta. Tommaso Corsini
rafforza la fortuna familiare (fonda La Fondiaria
Assicurazioni) e con un atto di generosità cede allo Stato
italiano il Palazzo della Lungara a Roma donando le sue collezioni
di dipinti, stampe e libri.
Il complesso della
Marsiliana, nel cuore della Maremma toscana, sorse
come castello in epoca medievale, dominio della famiglia Aldobrandeschi,
passò sotto il controllo dei Senesi nel Trecento e venne conquistato
verso la metà del Cinquecento dai Medici che lo inglobarono
nel Granducato di Toscana, dopo una brevissima parentesi sotto lo
Stato dei Presidi. Nel 1759 il castello (con diecimila ettari di terra)
fu dato in concessione al principe Corsini (la concessione durava
cento anni, dopo i quali i Corsini riscattarono il feudo);
il Granducato dava tali
concessioni di territori di confine ai grandi casati dotati di risorse
e che volessero assumersi l'onere di riqualificare un territorio malsano,
acquitrinoso, aspro e infestato da briganti; il principe Corsini,
lungimirante, ne fece un centro agricolo innovativo, autosufficiente
(nel borgo v'era tutto, il forno, il pollaio, la tessitura, il fabbro
ferraio, il maniscalco, etc., tutto ciò che serviva alla vita
dei lavoranti), risanandolo e coltivandolo soprattutto a grano. Naturalmente
rimaneva una buona parte del feudo ancora a boschi e macchie (il forteto),
dove il principe amava cacciare e dove ancor oggi si organizzano le
battute di caccia al cinghiale. Tommaso Corsini, uomo di cultura,
era anche archeologo sulle proprie terre, e portò alla luce
la famosa fibula Corsini, tesoro di gioielleria etrusca, conservata
al Museo Archeologico di Firenze.
Sin:
Il castello della Marsiliana com'era prima della ristrutturazione
del 1895. Dx: il castello della Marsiliana oggi.
(courtesy Principi
Corsini)
Il
principe Tommaso Corsini amava molto soggiornare al castello della
Marsiliana, che era la sua residenza quando si recava in Maremma,
e qui invitava gli amici per le "cacciate" in
compagnia, tra i quali il marchese Piero Azzolino,
ma anche cacciatori maremmani come lo "zio Pacone" o "Giocondo
il bestiaio". Uno di questi amici era Eugenio Cecconi, come risulta
anche da un'annotazione nel suo taccuino (scribbling diary).
Pagina del diario dell'anno 1881, settimana dal 17 al 22 gennaio:
arrivo del "pittore Eugenio Cecconi, persona molto simpatica",
gestione della tenuta, battute di caccia, considerazioni personali.
Eugenio
Cecconi, "Radunata di caccia"
Eugenio
Cecconi era spesso ospite anche a Capalbio. Palazzo Collacchioni,
di epoca rinascimentale, si trova addossato sul lato corto alla rocca
aldobrandesca (i.e. la torre medievale che svetta in cima al colle
di Capalbio). Si sviluppa su tre livelli e ve n'è un quarto
che mena ai sottotetti; dal portale di ingresso si accede al cortile
con il pozzo per la raccolta dell'acqua nella cisterna sottostante.
Attualmente di proprietà del Comune, è adibito a museo,
e tra mobili e abiti d'epoca conserva anche un fortepiano Conrad Graf
che fu suonato da Giacomo Puccini, anch'egli appassionato cacciatore,
che veniva ospitato a palazzo Collacchioni un mezzo secolo dopo. La
"strana e affascinante Maremma", "paese selvaggio,
primitivo, lontano, lontano dal mondo, dove riposa veramente lo spirito
e si rinforza il corpo [
]" sono le parole di Giacomo Puccini
che era affascinato dalla Maremma, e spesso vi era per grandiose battute
di caccia, ospite di Marco e Bianca Collacchioni. Il palazzo di Capalbio
venne aggiunto alle proprietà di famiglia da Giambattista Collacchioni
(1814-1895), senatore de Regno, che aveva incrementato la potenza
e le proprietà di famiglia, originaria di Sansepolcro - dove
tuttora vi è il bellissimo palazzo Collacchioni - guadagnandosi
anche l'appellativo di nobile di Borgo San Sepolcro; i suoi
vasti possedimenti spaziavano dall'aretino al grossetano. Come per
la proprietà dei principi Corsini alla Marsiliana, anche la
zona del capalbiese venne data in concessione dal Granducato a chi
ne potesse favorire lo sviluppo. All'epoca di Eugenio Cecconi il palazzo
del senatore Collacchioni (che il marchese Niccolini chiama familiarmente
Tista) veniva utilizzato come base per le battute di caccia.
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Capalbio: Palazzo Collacchioni.
Sin: una delle sale al piano nobile
Sopra: il fortepiano suonato da Giacomo Puccini
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Eugenio
Cecconi, "Partenza da Capalbio", olio su tela, 70x130
(collezione privata)
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Per tutto l'Ottocento le campagne e le strade furono teatro delle
azioni malavitose dei briganti. Tra questi ogni tanto si trovava qualcuno
che cattivo non era, costretto al brigantaggio dalla fame e dalla
miseria, e nell'immaginario popolare assumeva un'aura di romantico
eroismo poiché derubava i ricchi e aiutava i poveri, moderno
Robin Hood. In Romagna v'era Stefano Pelloni, immortalato dal Pascoli,
e in Maremma, tra i tanti, spiccava Domenico Tiburzi.
I briganti di strada spesso si radunavano in bande di tre, quattro
individui, che immancabilmente si ammazzavano tra di loro. Rubavano
ai viaggiatori e spesso anche ai contadini o ai pastori che all'epoca
non stavano affatto meglio di loro, vessati dalla malaria e dalla
cronica mancanza di cibo. La Maremma era terra aspra e dura, l'unica
cosa che forniva in abbondanza era la selvaggina, ed è il motivo
per cui tanti signori vi soggiornavano per le battute di caccia, che
per loro era un divertimento e non una necessità. I briganti,
avvezzi a usar di schioppo e di fucile, erano buoni cacciatori, ma
il loro maggior sostentamento lo trovavano nel taglieggiamento dei
nobili, grandi proprietari terrieri, che volentieri pagavano qualche
tributo pur di aver salvaguardati i loro beni.
Nel 1893 il
brigantaggio interessava il forese in molte regioni, e il
governo Giolitti ordinò ai vari Prefetti di intervenire. Fu
così ordinato di rastrellare la zona del viterbese e del grossetano
per smantellare la rete dei briganti maremmani. "E' intollerabile
che due o tre briganti si siano imposti ad un circondario intero e
che siano aiutati da un gran numero di conniventi. [
] Il numero
di manutengoli è grandissimo e codesti manutengoli non appartengono
tutti alle ultime classi sociali." E infatti i "manutengoli",
ossia coloro che in qualche modo proteggevano i banditi, non erano
soltanto i contadini, omertosi o per paura o per riconoscenza, ma
anche i signori, che volentieri pagavano la "tassa sul brigantaggio"
perché in cambio non avevano scioperi e i fattori stavano tranquilli,
che nessuno avrebbe incendiato i fienili, rubato la legna o pascolato
abusivamente, e anche la delinquenza spicciola spariva. Al Procuratore
del Re di Viterbo scapperà detto: "da quando vi era Tiburzi,
la delinquenza era sparita dal mio circondario". Al grande processo
del 1893 vennero fermate oltre 150 persone per favoreggiamento, tra
i quali non solo butteri e contadini, ma anche fattori, coloni, piccoli
proprietari terrieri e perfino parroci; si dice anche qualche nobile,
ma non è accertato. I condannati furono una cinquantina, tra
i quali i fratelli di Tiburzi, i nipoti e lo stesso figlio Nicola.
Domenico
Tiburzi (Cellere (VT), 28 maggio 1836 - Capalbio (GR), 24 ottobre
1896) è un bifolco, dapprima fa il pastore e il buttero, altro
non v'era da fare, e vivacchia di espedienti. Ha moglie e due figli,
ma vive in una casa affollata dove comanda un padre avaro; anche quel
poco che guadagna la moglie va al capofamiglia, e la poverina, ultima
arrivata, deve fare i lavori più pesanti. Poi la moglie muore
di quelle febbri alternanti e rapide ch'era la malaria e nessuno sapeva
cos'era.
Un giorno il guardia del marchese Guglielmi lo multa di ben 20 lire
per averlo còlto mentre spigolava, e questo bastò a
farlo ammazzare dal Tiburzi incollerito. Condannato a 18 anni e incarcerato
nei bagni penali di Corneto (Tarquinia), insieme con Domenico Biagini,
che sarà suo fido compare, riesce a fuggire e si dà
alla macchia, iniziando la carriera di bandito (siamo nel 1874, e
da questo momento è ergastolo, con una taglia di diecimila
lire sulla testa). Estorsioni, sequestri, rapine e quant'altro allungano
la sua fedina penale, ma lo spirito che lo anima è singolare.
Egli è credente, e sente alto il senso di giustizia, o meglio,
l'ingiustizia di vedere chi ha molto e chi nulla; egli si propone
di dividere il bene che non è stato sudato da nessuno con i
più poveri, in una sorta di giustizia distributiva, cioè
di prendere a chi ha troppo per darlo a chi ha troppo poco: si autoproclama
il livellatore. Egli non ruba per arricchire, ma difendersi sta
bene e vendicarsi sta anche meglio. E la bilancia funzionava: il denaro
era travasato dal fattore alla povera vedova, dal proprietario al
buttero, dal nobile cittadino all'erbaiola. Il
Tiburzi si guadagna in tal modo una sorta di affetto da parte di molti,
e viene rispettato da tutti: per ben ventidue anni nessuno lo tradirà.
Sono molti gli aneddoti che lo riguardano. Un giorno passando per
una straducola si imbatte in una famigliola che piangeva sconsolata.
"Che avete fatto", chiede, e loro: "Abbiamo incontrato
il Tiburzi che ci ha rubato tutto, soldi e roba". "Dov'è
andato", fa lui. A un vago accenno verso la boscaglia, il Tiburzi
prende e va, e siccome la boscaglia lui la conosce benissimo, poco
dopo trova il bandito e lo ammazza. Poi torna dai poveracci derubati,
restituisce loro la roba, i soldi, e per soprammercato altri soldi
che il bandito aveva in tasca per conto suo. "Tenete tutto"
fa ai poveracci attoniti, "Il Tiburzi sono io, e nessuno si deve
permettere di far brigantaggio a nome mio".
Il Tiburzi forma una specie di banda con altri come lui, prima di
tutti Domenico Biagini e in seguito Luciano Fioravanti suo nipote,
un ex-cuoco non troppo intelligente, e col tempo ingigantisce la sua
fama; sono molte le uccisioni sia dei delatori, che se ne trovavano
sempre, sia dei compari, perché il Tiburzi li puniva quando
li coglieva ad uccidere un poveraccio innocente. Lui cerca di controllarli
perché il Biagini è impetuoso, il Fioravanti sanguinario,
il Basili feroce. Oltre
alla taglia, si erano tutti guadagnati anche la condanna a morte.
Di grilletto facile, al Tiburzi bastava
poco per far fuori qualcuno, bastava che rubassero una pecora o un
maiale a qualcuno a lui vicino che subito cercava il colpevole e lo
ammazzava. Ma mai si permise di uccidere un carabiniere o un nobile.
Nel 1889 il fido compare Biagini viene ucciso dai carabinieri in un
agguato, mentre Tiburzi ci guadagna una palla in un ginocchio, che
lo metterà in seria difficoltà. Tiburzi aspetta un anno,
poi allo scadere dell'anniversario si presenta alla tenuta Guglielmi
dov'era il delatore che aveva favorito l'agguato. Ci va col Fioravanti,
al quale lascia il compito di far fuori la spia: anche qui, per il
suo speciale senso di giustizia.
Il Tiburzi poi, nella sua lunga peregrinazione nel forteto, incontrava
i signori che cacciavano, e il marchese Eugenio Niccolini nel suo
libro conferma di aver conosciuto il Tiburzi e narra diversi episodi
con i briganti, e ci descrive persino il Fioravanti: tarchiato, con
la barba rossa e la faccia volgare. Una volta ne vennero due al casino
di caccia a chieder asilo per la notte dicendosi boscaioli, e il marchese
ne riconobbe uno anni dopo che passava tra due gendarmi; un'altra
volta, un giorno ch'era solo, venne fermato da due briganti che gli
chiesero cortesemente il denaro: poiché lui non ne aveva con
sé, disse loro di aspettare, ché sarebbe andato a prenderlo,
e difatti i due aspettarono, e il marchese tornò con il denaro.
Molto semplicemente.
E accanto alla fama venne la leggenda. Tiburzi è descritto
come un bell'uomo, ben portante; non vi sono sue fotografie tranne
una che gli fu presa dopo morto, ma non dubitiamo delle dicerie sul
suo conto come rubacuori. In casa di tal Leonardo Stolfi, boscaiolo,
v'erano tre figliole e di tutte e tre si diceva fossero sue amanti;
si diceva che a Roma - dove pare che il Tiburzi andasse spesso - ve
n'era un'altra con una figlia; e che le donne maremmane fossero orgogliose
di concedersi. Si parlava del Tiburzi come di uno che volesse emulare
i signori, e che tutto ben vestito si recasse persino a teatro, quando
era a Roma; si favoleggiva di viaggi a Parigi, quando in Maremma non
lo si vedeva per un pezzo. E quando c'era, molto spendeva. Dove si
fermava a mangiare dai contadini, questi venivano lautamente pagati,
se mandava a far compere, non lesinava. E sarà proprio questo
a tradirlo.
Dunque il brigante stava nascosto in questa casa dove abitava tal
Nazareno Franci con due figlie, l'una stava col Tiburzi e l'altra
col Fioravanti. Tiburzi, sessantenne, è molto malandato e il
ginocchio non gli permette neanche di fare una giornata nella macchia
senza che Fioravanti - che ha vent'anni di meno - non lo debba portare
a spalla. Si era dato al bere. Al Franci Tiburzi dava i soldi per
comprare da mangiare ed altro ma questi era un poveraccio, sicché
a Capalbio, dove andava a far spesa, si domandavano come potesse comprar
tante cose, e persino i sigari (ma costui non fumava
) e da questi
indizi pensarono a casa sua ci fosse il Tiburzi, e qualcuno fece la
spia ai Carabinieri - dopo ventidue anni di silenzio. Quella sera
tra il 23 ed il 24 di ottobre pioveva, era notte fonda ed era buio,
i Carabinieri si avvicinarono alla casa, dov'era ancora acceso un
fioco lumicino, ma da fuori sufficiente a veder chi v'era dentro,
e fecero irruzione. Il Fioravanti fu lesto a scappare, ma il Tiburzi,
che oltre ad essere menomato era anche ubriaco, venne ferito a una
gamba, ed egli, esclamando: "non mi prenderete vivo", estrasse
la pistola e si sparò alla testa.
Meno romantica la fine del Fioravanti, che, al contrario del Tiburzi,
era un banditaccio qualunque dotato solo di cattiveria. Un giorno
fece irruzione in casa di un contadino, si servì da mangiare,
poi andandosene via rubò quello che trovò, ma il contadino,
stanco dei soprusi, prese a sua volta lo schioppo e gli sparò
alla schiena. Nessuno in Maremma rimpianse il Fioravanti, mentre ancor
oggi il Tiburzi è considerato poco meno di un eroe. Poiché
si era sparato il parroco di Capalbio non lo voleva seppellire in
terra consacrata, ma le proteste popolari furono tali che si arrivò
al compromesso di seppellirlo metà dentro e metà fuori
il camposanto, sulla linea di confine. Come lapide ebbe un solo cartellaccio
in legno, in seguito apposto su una colonna; oggi la colonna è
al centro del camposanto a causa dell'espansione del cimitero stesso,
ma la tomba è vuota: la pietà popolare ha fatto sì
che il corpo venisse traslato al suo paese natale, Cellere.
©
Maria
Enrica Carbognin per www.letteraturadimenticata.it, febbraio 2019
|
Eugenio
Cecconi,
"Aspettando
la zuppa"
Eugenio
Cecconi,
"Cani"
Telemaco Signorini
disse:
"c'è gente nei cani del Cecconi"
Eugenio
Cecconi,
"Scena di
caccia"
Eugenio
Niccolini,
Giornate di caccia,
Istituto Micrografico Italiano,
1915
Non si tratta dei racconti di caccia,
bensì di un manuale di caccia,
un elenco ragionato di animali da cacciare e dei mezzi per farlo
(lacciuoli, panie, trappole, etc.)
La prima edizione di
Giornate di caccia
(i racconti) anch'essa datata 1915,
è introvabile poiché stampata in un numero esiguo di
copie, non pensando il marchese Niccolini di riscuotere tanto successo.
Le edizioni successive datano al
1926, 1943,
1950, 1976, 1979,
1990, 1993 e 2007.
Eugenio Niccolini,
Giornate di caccia,
ArteVentBook, 2007
front cover:
"Cacciatore coi cani"
disegno a china di Eugenio Cecconi
Eugenio Niccolini,
Giornate
di caccia,
ArteVentBook, 2007
back cover:
"Il ritorno dalla caccia"
bozzetto di Eugenio Cecconi
Castello della Marsiliana:
trofeo di caccia
(courtesy
Principi Corsini)
Castello
della della Marsiliana:
scorcio della corte interna
(courtesy
Principi Corsini)
Partenza dalla Marsiliana
(courtesy www.principecorsini.com)
Castello della della Marsiliana, Museo:
una pagina dello scribbling diary
del principe Tommaso Corsini
(gennaio 1881) dove si annuncia
l'arrivo del pittore
Eugenio Cecconi
per una battuta di caccia.
(courtesy Principi Corsini)
Capalbio
è
situata in cima alla collina e ancor oggi è circondata
da boschi e macchia mediterranea
|
Capalbio: esterno di Palazzo Collacchioni e la "Porta del vento"
Capalbio:
Palazzo Collacchioni.
Veduta da una finestra del secondo piano. Si intravede la strada
che porta alla Marsiliana
|
Capalbio, entroterra: la strada intitolata al Tiburzi.
Sullo sfondo Capalbio paese.
La
casa dove morì il Tiburzi.
Attualmente è di proprietà
di S.G., che racconta:
"Un tempo venivano in molti a fotografarla, ora sono almeno
trent'anni
che non viene più nessuno."
La tomba del Tiburzi
nel cimitero di Capalbio
La scritta sul tavolaccio, in origine la sola cosa che contrassegnasse
il luogo di sepoltura del Tiburzi:
la colonna fu apposta in seguito.
|