ALESSANDRO MANZONI
Il
padre e la madre
La madre del Manzoni (1),
Giulia Beccaria, era figlia di Cesare Beccaria, autore di quel
Dei delitti e delle pene, che dai suoi contemporanei
fu letto e osannato, tanto che il Beccaria era all'epoca l'autore
più noto della penisola, superando in fama anche il Parini
e il Monti. Cesare Beccaria, figlio del marchese Giovanni Saverio
Beccaria Bonesana e di donna Maria Visconti, sposò nel
1761 Teresa de' Blasco, che gli dette le figlie Giulia e Maria;
rimasto vedovo nel 1774, si risposò con la contessina
Anna Barnaba Barbò che gli dette il figlio Giulio.
Tanto il giovane Alessandro era superbo di quella discendenza,
che volle far seguire il cognome Beccaria a quello di Manzoni
nei documenti. Peraltro, egli era tutt'altro che snob: mai fu
interessato al ripristino del titolo di conte, che gli sarebbe
spettato se solo ne avesse fatto domanda al governo austriaco,
che aveva offerto il riconoscimento dei vecchi titoli a coloro
che ne avevano fatto domanda, e infatti non si curò di
presentare i documenti relativi, lasciando cadere la questione.
A chi gli domandava se fosse davvero conte, egli rispondeva:
"Coloro che mi chiamano conte mostrano di non aver letto
tutte le mie opere [
] Io sono Alessando Manzoni, e nient'altro."
Un diverso tipo di coscienza di sé.
In realtà la famiglia Manzoni nobile lo era. Nel 1770
il Re Carlo Emanuele III concesse l'investitura del feudo di
Moncucco nel novarese ad un Alessandro Manzoni (i nomi dei primogeniti
erano sempre Alessandro e Pietro, alternati), feudo che già
apparteneva alla famiglia, vassalla prima del Re di Spagna,
poi degli Austriaci, e infine, dopo la pace di Aquisgrana, dei
Savoia. L'investitura fu confermata poi da Vittorio Amedeo III
a Pietro, padre del Nostro. Curiosità:
Pietro Manzoni aveva undici tra fratelli e sorelle.
Anche la famiglia Beccaria era nobile e ricca, godette infati
della signoria di Pavia e di una vasta zona oltre il fiume Ticino.
Al tempo del matrimonio tra Pietro (già vedovo di una
prima moglie, Margherita) e Giulia, i latifondi erano persi
ma titoli e ricchezze restavano. Il matrimonio fu combinato
dal conte Pietro Verri e celebrato il 20 settembre 1784 nella
cappella privata di Palazzo Beccaria, sito in via Brera all'attuale
n.6: uno splendido indirizzo. Lo sposo aveva 46 anni e la sposa
appena venti, e dunque fa poca meraviglia se il matrimonio ebbe
esito infelice, lui ritroso e casalingo, lei vivace e frequentatrice
del bel mondo.
Fin
qui ciò che si legge nelle biografie ufficiali. Tuttavia
qualche anno fa sono emersi dei documenti (2)
che raccontano tutta un'altra storia, fatta di volgari insinuazioni
che attribuiscono paternità diverse. Negli anni tra
il 1830 e il 1840 Alessandro Manzoni ebbe come confessore
il parroco della chiesa di San Fedele, don Giulio Ratti, lontano
parente di Pio IX, che aveva un fratello spretato e sedicente
medico, Innocenzo Ratti, il quale annotava in un suo diario
tutti i pettegolezzi uditi in giro, e le confidenze del fratello,
facendone un tomo chiamato pomposamente "memorie".
Alcuni critici vi danno fede, e pertanto riporteremo in sintesi
quanto in esse contenuto: la moglie del Beccaria, Teresa de'
Blasco, donna di straordinaria bellezza, morta a soli 29 anni
di sifilide, era dissoluta; nel suo letto si era infilato
molto presto Pietro Verri, dal quale aveva avuto Giulia; Pietro
Manzoni, detto dal Ratti impotente, venne ben presto cornificato
da Giulia, che ebbe numerosi amanti, il primo dei quali fu
Giovanni Verri, il più giovane dei numerosi fratelli
di Pietro, e dunque suo zio, dal quale ebbe appunto Alessandro.
Dubitiamo che Alessandro Manzoni sapesse per certo di queste
paternità attribuite, tanto dal confessarle a Don Ratti,
il quale le avrebbe raccontate al fratello... dubitiamo pure
che un padre spirituale riporti a chicchessia quanto udito
dai fedeli, pur se al di fuori del segreto confessionale.
Viene detto anche che Alessandro Manzoni ignorasse il vero
rapporto tra la madre e Carlo Imbonati, rivelatogli addirittura
nel 1827, e che la rivelazione fu una tale sorpresa che eliminò
dalle Opere varie il carme "In morte di
Carlo Imbonati" da lui composto da ragazzo. Se è
vero che nella Milano salottiera circolava l'epigramma "con
quel corno che Giulia fea a Pietro Manzoni / piovvero ad ella
un sacco di soldoni", è pur vero che Carlo Imbonati
e Giulia tennero la loro relazione a Parigi, lontano da Milano,
quando lei si era già separata legalmente dal marito
(con atto del 13 febbraio 1792). Aggiungiamo che Carlo Imbonati,
morto nel 1805, lasciò a Giulia tutti i suoi beni,
come fosse sua moglie, inclusa quella villa di Brusuglio dove
in seguito soggiornò a lungo anche il Nostro, evidentemente
riconciliatosi con l'idea che la madre e l'Imbonati avessero
avuto una relazione; questa infatti doveva essergli ben nota,
poichè la madre lo richiamava sovente presso di sé
a Parigi, dove abitarono insieme in forma continuativa dopo
che essa rimase sola; inoltre
egli stesso in quegli anni giovanili condivideva tutto lo
spirito ateo e libertario francese del dopo-rivoluzione, e
frequentava Claude Fauriel, che a lungo fu un suo punto di
riferimento, il quale era convivente di Sophie de Grouchy,
vedova del Condorcet. Dunque le convivenze non dovevano scandalizzarlo
tanto.
E' un dato di fatto, tuttavia, che Manzoni non fu mai legato
al padre, mentre adorava la madre, che visse sempre insieme
con lui; nel 1807 essi si trovavano a Genova quando vennero
informati che Pietro, malato, desiderava rivedere il figlio:
giunti a Brusuglio seppero ch'era morto, e ripartirono senza
nemmeno entrare in paese. Alessandro Manzoni vendette nel
1818 i possessi paterni nel lecchese, compreso il palazzetto
chiamato "Caleotto" dov'era anche la cappella di
famiglia con la tomba di Pietro Manzoni, ma lo fece con sofferenza,
e al nuovo proprietario, tal ingegnere Scola, che gli offriva
di dimorar al Caleotto quanto volesse, rispose "Io non
verrò mai più in quei luoghi, se vi ritornassi,
non vi farei che piangere tutto il giorno."
Frase che si presta a più di una interpretazione.
Primi anni
Stabiliti Pietro e Giulia in una vasta casa di via San Damiano,
nei pressi del Naviglio Grande (oggi via Visconti di Modrone),
colà nacque il giorno 8 marzo 1785 Alessandro Francesco
Tommaso Antonio. Padrino di battesimo fu il marchese Francesco
Arrigone.
A sei anni fu mandato a scuola dai Padri Somaschi, prima nel
collegio di Merate, poi in quello di Lugano, dove fu allievo
di P. Francesco Soave. Nel 1798 Pietro fu costretto a richiamare
il figliolo in patria, che in quel momento era la Repubblica
Cisalpina, e lo mise a convitto dai Padri Barnabiti a Castellazzo
de' Bardi, dove l'anno seguente potè testimoniare la
ritirata delle truppe francesi dinanzi agli eserciti della
seconda coalizione capeggiata dall'impero russo e da quello
austriaco (al che Napoleone, rientrato dall'Egitto, si affrettò
a riprendere il controllo della Lombardia vincendo la battaglia
di Marengo).
Infine terminò gli studi a Milano, nel collegio Longone,
che lasciò nel 1801. Nel 1803 fu per qualche tempo
in visita a Venezia, dove venne preso da subitanea ammirazione
per una gentildonna di cui non ci è stato tramandato
il nome, alla quale chiese di sposarlo; sembra che la gentildonna
gli abbia risposto: "Alla vostra età si va a scuola
e non si fa all'amore".
Le
miniature di A. Manzoni
ed Enrichetta Blondel
eseguite per il matrimonio
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La famiglia
Dopo qualche anno, il 6 febbraio 1808, Alessandro sposò
una giovanissima fanciulla, Enrichetta Blondel, di fede evangelica,
figlia di Francesco Luigi e Maria Mariton, di origine svizzera
e trasferiti nel bergamasco dove avevano impiantato delle filande.
A Milano abitarono per pochi mesi in via del Marino, in una
casa acquistata dall'Imbonati.
La coppia si stabilì poi a Parigi, in Boulevard des Bains
Chinois al n°22, dove nel dicembre dello stesso anno nacque
la primogenita di una lunga sequela di figli, Giulia Maria Claudia
Genoveffa, detta Giulietta (3). Per essere
battezzata, si dovette chiedere di celebrare nuovamente il matrimonio
con rito cattolico, il che avvenne l'anno seguente. Questo fatto
venne visto in seguito dalla critica come il primo passo verso
la 'conversione' del Manzoni (attribuita addirittura ad un miracolo),
il quale a questo proposito tenne sempre un signorile silenzio
e a nessuno, nemmeno ai familiari, disse mai come andarono le
cose. Ma anche Enrichetta si convertì al cattolicesimo,
e fece solenne abiura sottoscrivendo al contempo professione
di fede nella chiesa di Saint-Sévérin, a Parigi,
nel 1810. Dopo la nascita della seconda figlia, Luigia Maria
Vittorina, morta lo stesso giorno, tornarono a Milano, anzi
si raccolsero nella villa di Brusuglio, ma poi cercarono casa
in quella che era allora la città cosmopolita più
interessante della penisola. Fino allora infatti soggiornavano
in casa Beccaria nelle loro temporanee scappate, e per quasi
due anni avevano preso a pigione una casa in via S. Vito al
Carrobbio. La casa che acquistarono fu quella di via Morone,
all'angolo di piazza Belgiojoso, dove il Manzoni terminò
i suoi giorni. Vi si trasferirono sul finire del 1813.
Risale
attorno al 1823 il ritratto dell'intera famiglia Manzoni ad
opera di Teresa Bisi. Anni dopo il figlio della seconda moglie
del Nostro, Stefano Stampa, riprodusse il quadro in un dagherrotipo,
sul retro del quale vennero precisati l'età e i colori
di occhi e capelli di ciascuno, su indicazione dello stesso
Manzoni.
Il
pastello con i coniugi Manzoni e figli eseguito da Teresa
Bisi.
Fila in alto, da sin: Enrichetta Blondel, Alessandro
Manzoni, Giulia Beccaria.
Fila al centro, da sin: Cristina, Pietro, Giulia.
Fila in basso, da sin: Vittoria, Clara, Enrico, Sofia.
Nella descrizione fatta dal padre i figli hanno i capelli
biondo-rosso e gli occhi verdi o cerulei,
tranne Cristina, scura di occhi e capelli.
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Dopo
Gli Inni Sacri, composti tra il 1812 e il 1822,
tra brevi viaggi a Parigi e difficoltà con il governo
austriaco a causa della sua vicinanza al Conciliatore,
Manzoni iniziò a scrivere le prime tragedie; tra queste,
Il Conte di Carmagnola venne addirittura elogiato
da Goethe con una lettera del 1821. Un anno molto particolare,
il 1921. A fine anno completò l'Adelchi,
ma a maggio la morte di Napoleone gli aveva ispirato Il
Cinque Maggio, un'ode tra le più amate di tutta
la letteratura italiana. Egli stesso disse di averla concepita
in soli tre giorni, assai scosso dal'avvenimento. Lui, Napoleone,
l'aveva veduto da vicino. Era accaduto molti anni prima, precisamente
nel giugno del 1800, ad una serata di gala in onore di Napoleone,
allora Primo Console, tenutasi al teatro alla Scala. Gli occhi
l'avevano colpito, tanto che già allora nella sua mente
quegli sguardi erano i 'rai fulminei'. Tuttavia l'ode fu tenuta
sottochiave fino all'anno 1840.
La data del 24 aprile 1821, vergata sul primo foglio manoscritto,
segna la data di inizio della gestazione de I Promessi
Sposi, che furono pubblicati dall'editore Vincenzo Ferrario,
in tre volumi datati 1825 i primi due e 1826 il terzo, tirati
in duemila copie in carta comune e pochissime in carta velina.
Curiosità: i tomi avevano una grossa copertina in carta
a mano, col titolo stampato al piatto, come si usa oggi. Ma
la prima edizione, si sa, è assai diversa dall'ultima.
Nel 1827 l'intera famiglia, compresi i figli tranne Filippo
che rimase a balia, e cinque domestici, si stabilirono in Toscana,
in parte per l'esigenza del Manzoni di ricercare la lingua pura,
in parte perché le condizioni di salute di Enrichetta
consigliavano un clima più mite e l'aria marina (la poveretta
per un certo tempo perse anche la vista quasi completamente).
Il preciso racconto del viaggio è tuttora reperibile
nelle lettere scritte dalla primogenita Giulietta al cugino
Giacomo Beccaria. La comitiva fece sosta a Genova per una ventina
di giorni, arrivò a Livorno, dove rimase altri venti
giorni, e finalmente arrivò a Firenze. Tanto ci si metteva
all'epoca per fare un viaggetto di trasferimento.
Manzoni si aspettava molto dal contatto con il Vieusseux e il
suo noto Gabinetto, ed infatti non fu deluso; tra le varie personalità
letterarie, trovò Gaetano Cioni che gli fu prezioso collaboratore.
A Firenze il Nostro soggiornò dall'agosto all'inizio
di ottobre. Della lunga gestazione del testo de I Promessi
Sposi e della "risciacquata in Arno" qui non
parleremo, poiché vi sono ben altri colti luoghi dove
discuterne. Volendo, vi sono luoghi meno colti e più
inclini al pettegolezzo dove informarsi, come i ricordi risorgimentali
di Raffaello Barbiera, che dichiara come il Manzoni recasse
con sé da Firenze una donna, tale Emilia Luti, che doveva
parlargli nella purissima lingua fiorentina e correggere i dialettismi
milanesi (ricordiamo perlatro che tutti a quell'epoca, nobili
compresi, parlavano il dialetto milanese) ma fu ingannato perchè
la fiorentina non era una persona colta, bensì una "portinaia".
Nell'aprile
del 1831 Massimo Taparelli, marchese D'Azeglio, si presentò
al Manzoni chiedendogli senza mezzi termini di poter sposare
Giulietta, peraltro mai veduta, di cui aveva "sentito
dir tanto bene". Dapprima Giulietta disse no, poi sì,
e infine il matrimonio venne celebrato sul finire dell'anno
seguente.
La coppia si stabilì in via del Marino, in casa Blondel,
assai vicino a casa Manzoni, con la quale assai amichevoli
erano le frequentazioni. Tanto amichevoli, che D'Azeglio sottopose
al suocero le bozze dell'Ettore Fieramosca,
ed il Nostro, senza alcun imbarazzo, disse che il finale non
gli garbava e glielo riscrisse.
Enrichetta,
che godeva di pessima salute, passava lunghi periodi o nella
villa di Brusuglio o nel castello dei D'Azeglio a Genova,
ma la fine arrivò la notte di Natale del 1833. Venne
seppellita a Brusuglio. Ben presto il dolore venne superato
dalla necessità, e Manzoni convolò a seconde
nozze il 2 gennaio 1837 con donna Teresa Borri, agiata vedova
del conte Decio Stampa, su suggerimento di Tommaso Grossi,
che viveva all'epoca in casa Manzoni. Teresa portò
con sé il figlio Stefano (1819-1907) che andava magnificamente
d'accordo col Manzoni. In cambio ascoltava piamente quando
il Manzoni le parlava dell'amata Enrichetta.
Frattanto alcune vicende giudiziarie legate alle contraffazioni
e alle vendite non autorizzate di copie de I Promessi
Sposi pubblicati al di fuori del Lombardo-Veneto spinsero
il Nostro alla realizzazione di un'edizione di lusso illustrata,
non solo, ma ad assumerne anche l'edizione. Per le illustrazioni
si rivolse a Francesco Hayez, ma i due disegni xilografati
dal parigino Lacoste non piacquero; anche il pittore Boulanger
venne scartato, finché venne scelto Francesco Gonin,
un giovane pittore torinese, presentato da Massimo D'Azeglio.
Nel
1840 il lavoro era già a buon punto, l'incisore Sacchi
aveva fatto venire appositamente da Parigi ben tre incisori,
ai quali se ne aggiunsero altri due. Il Nostro seguiva passo
passo e molto accuratamente tutto il lavoro. Finalmente le
prime dispense apparvero, e nel giro di due anni la pubblicazione
venne terminata. La Storia della colonna infame,
che nella prima edizione era un'appendice al tomo IV, nell'edizione
del 1840-42 viene aggiunta come "opuscolo in fine del
volume".
Tuttavia Manzoni ebbe delle difficoltà a causa dell'alto
costo da lui sostenuto per ottenere una stampa impeccabile,
e il ricavato delle sottoscrizioni non riuscì a coprire
le spese. Nel 1843 Manzoni dovette riconoscere il fallimento
della sua speculazione editoriale, dato che metà delle
copie della tiratura erano rimaste invendute. Lasciò
quindi al figlio Pietro l'incarico di liquidare le pendenze.
Questi si accorse che l'editore Guglielmini non aveva ottemperato
correttamente al contratto, e la vicenda finì davanti
al magistrato nel 1845. Nello stesso anno Manzoni affidò
a Redaelli l'incarico permanente di tutte le sue opere.
Nel 1845 intentò a Felice
Le Monnier una celebre (e lunga) causa poichè questi
aveva stampato senza autorizzazione I Promessi Sposi
nella versione del 1827, contravvenendo alla convenzione
tra i vari stati italiani sul diritto d'Autore, istituita
nel 1840. Manzoni vinse la causa ed ebbe un notevole risarcimento.
Ultimi anni
Nel
1848, anno della rivolta milanese contro gli Austriaci, il
figlio Filippo fu preso prigioniero sulle barricate durante
le Cinque Giornate. L'intera famiglia si ritirò in
seguito nella villa di Lesa, sul Lago Maggiore, villa che
apparteneva a Teresa, la quale, dopo una penosa malattia,
morì il 23 agosto 1861. Teresa aveva avuto nel 1845
una curiosa vicenda: le si era gonfiato il ventre e stava
malissimo, per cui i medici le avevano diagnosticato un brutto
male, finchè dopo alcuni mesi la poveretta si era sgravata
di due gemelline, immediatamente decedute. Da quel momento
essa non si era mai più ripresa dallo choc, e, da ipocondriaca
che era, andò sempre peggiorando.
Nel
1858 Manzoni soffrì di una grave malattia, e in quell'occasione
vi fu un andirivieni di varie personalità che andavan
a prender notizie. Anche l'arciduca Massimiliano, all'epoca
Governatore di Milano, si recò a chiedere sue notizie,
ma il Nostro non lo volle ricevere. Nel gennaio 1857 l'Imperatore
Francesco Giuseppe era andato a Milano in visita con la
moglie Elisabetta di Baviera, dopo aver concesso un'amnistia
generale, cercando di pacificare la popolazione sempre in
rivolta, ma era stato accolto gelidamente (4).
Aveva inviato allora il fratello, colto e cavalleresco,
sperando che conquistasse con i suoi modi cortesi e le molte
iniziative la nobiltà milanese, che invece fomentava
e capeggiave le rivolte. Finalmente era morto il maresciallo
Radetzky, ma il sostituto, feldmaresciallo Giulay, riceveva
istruzioni da Vienna del tutto opposte a quanto propugnato
dall'arciduca, il quale disconosceva le violenze e il regime
terroristico tenuto finora dall'Austria. Francesco Giuseppe,
infatti, temeva che Massimiliano si facesse benvolere dai
milanesi e arrivasse a cingere la corona di un regno Lombardo-Veneto
autonomo. Ma ciò non fu, perchè Cavour si
stava mettendo d'accordo con Napoleone III, ma soprattutto
perchè i milanesi resistettero a tutto, a inviti,
a onorificenze, al mecenatismo nei confronti degli artisti,
ad ogni sorta di liberalità e cortesie: e Manzoni
non lo ricevette.
Nel
1860 il Re Vittorio Emanuele conferì al Nostro la
nomina a Senatore e in tale veste egli prese parte alla
proclamazione del Regno d'Italia. Ricevette inoltre la commenda
dell'Ordine di San Maurizio e una pensione di 12.000 lire
annue; venne poi nominato Presidente onorario dell'Istituto
Lombardo di Scienze e Lettere. Ma a quest'epoca Manzoni
era già parecchio sofferente nel fisico come nello
spirito, poichè una sua nevrastenia lo teneva rinchiuso
in casa, lontano dalla gente. In una lettera del 1860 indirizzata
al poeta Emilio Broglio, a proposito della nomina a Senatore
si esprime così: "Andare in Senato, anche per
tacere, è già una grossa difficoltà
per un uomo che da quarant'anni, a causa di attacchi nervosi,
non osa mai uscir solo di casa sua. Perfino il rimanere
in una sala, dove sieno radunate quaranta o cinquanta persone,
parrà una caricatura, ma non c'è verso; la
è un'impresa superiore alle mie forze; gli è
tanto vero, che spesso mi accade, andando la domenica a
messa, quando ci sia un po' di gente in chiesa, di non potermi
superare e doverne uscire senz'altro..."
Il 21 maggio 1862 Garibaldi, reduce dalla conquista del
mezzogiorno, veniva trionfalmente accolto a Milano. Quattro
giorni dopo egli andò a visitare Alessandro Manzoni
nel suo studio al pianterreno della casa di via Morone,
portandogli in dono un mazzolino di violette. L'incontro
venne immortalato dal de Albertis, e minuziosamente riportato
dai giornali.
Massimiliano
d'Asburgo
(1832-1867)
|
Giuseppe
Garibaldi
da un ritratto
di Girolamo Induno
|
Garibaldi
si reca in visita da Manzoni,
dipinto di Sebastiano de Albertis,
1863 (Museo di Milano)
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Giuseppe
Verdi
da un disegno
del Focosi (1845)
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Pochi anni dopo avvenne un altro famoso incontro: quello tra
Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, i quali, pur senza essersi
mai veduti, si stimavano vicendevolmente. Fu Clara Maffei, che
teneva un famosissimo salotto letterario e, per un certo periodo,
anche politico, a farli incontrare. Giuseppe Verdi era amicissimo
della contessa, la quale era intima anche di Manzoni da lungo
tempo, fin da quando egli, giovane, si recava a casa sua la
sera a giocare a tressette, abitudine che perse con il tempo
e con la sopravvenuta fede cristiana, ma non perse la piacevole
compagnia della contessa, che si recava da lui tutte le domeniche
dopo la messa. Nel maggio 1867, su richiesta di questa, vergò
poche righe di dedica sotto un suo ritratto indirizzato a Verdi,
che molto invidiava la moglie Giuseppina, buona amica di Clara
Maffei, per esser stata presentata a Manzoni. Sicchè
la contessa organizzò alfine il famoso e unico incontro
tra i due grandi, che avvenne in casa Manzoni il 30 giugno 1868.
Alla
morte del Manzoni, Verdi gli volle dedicare la sua Messa
da Requiem, alla quale lavorava da anni. La Messa fu eseguita
per la prima volta a Milano nel primo anniversario della morte
del Manzoni.
Dopo la morte del Manzoni
(22 maggio 1873) (5), fu il Senatore
Pietro Brambilla che fece avere alla Biblioteca Braidense gli
autografi, mentre la casa di via Morone fu venduta a privati.
In qualche modo il Comune di Milano ne venne poi in possesso,
adibendola a museo manzoniano. Al figlio Pietro Luigi il Manzoni
lasciò per testamento tutti i manoscritti, i libri, e
i ritratti.
I
Promessi Sposi: illustrazioni e
caricature
Inutile
dire che il testo de I Promessi Sposi ha sempre
acceso la fantasia di pittori e illustratori, per non parlare
del personaggio della Monaca
di Monza che ha suscitato tutta una letteratura di poco
valore ma di molte tirature. La casa editrice di Ulrico Hoepli
indisse un concorso nell'anno 1900 per un'edizione di lusso
da realizzarsi con tavole in eliotipia. Molti furono i pittori
che concorsero, e vinse Gaetano Previati (31/8/1852 - 21/6/1920),
il quale aveva avuto tutto il tempo per la ricerca e l'esecuzione,
poichè si era già messo nell'impresa di illustrare
il testo, assai prima di venir a sapere del concorso Hoepli.
Presentò così quasi tutte le illustrazioni, dove
la commissione esaminatrice vide "la viva compiacenza dell'artista
nel riprodurre il paesaggio manzoniano che egli mostra di conoscere
profondamente" e "le segrete armonie, note al solo
artista, che governano in ogni tempo, la moda e i movimenti
del corpo umano".
Nell'anno 1921
la casa editrice ristampò tale versione in una "edizione
speciale per il centenario 1821-1921", corredata da 24
tavole.
Non mancarono le caricature, generalmente apparse sui periodici,
ma vi fu anche un'intera edizione del romanzo, edito da Quintieri
nel 1912 con ristampe nel 1914 e 1919, illustrata dalle vignette
caricaturali di Ezio Castellucci; la cosa
fu giudicata irrispettosa e il volume oggi è introvabile,
conservato in appena una dozzina di biblioteche.
vignetta di Filiberto Scarpelli
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vignetta
di Piero Bernardini per Gente Nostra
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